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Fuori programma. Per una scholé di autòs-didàskaloi

Pubblicato il: 21/07/2010 18:05:27 -


La scuola come carcere: già da molti anni la scuola che conosciamo mostra irresistibili segni di obsolescenza; ed è probabile che nuovi modelli di formazione, di cui si intravedono già gli embrioni, prenderanno corpo in un futuro non lontano, nel quale anche la centralità dell’edificio-reclusorio sarà inevitabilmente superata, almeno in parte.
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Abbiamo concluso un nostro precedente intervento a commento della “scuola in carcere” praticata da Antonio Capaccio con l’ipotesi, invero niente affatto provocatoria, che la scuola stessa sia un’istituzione imparentata con il carcere. Prima di riprendere il tema della “scuola dell’errare” di cui abbiamo parlato nel nostro precedente intervento, ovvero di una scuola agli antipodi di quella bene o male ancora dominante, ci pare opportuno ricordare appena che questa bisecolare macchina illuministico-napoleonica, nata per inquadrare nelle nascenti società di massa i membri dello stato-nazione col compito di trasformarli in cittadini-patrioti virtuosi e in potenziali soldati – in parallelo col sorgere dei primi eserciti di leva – porta iscritta nel suo codice genetico una insopprimibile vocazione ortonomica e correttiva, esattamente come le istituzioni parallele. Basterebbe un accenno al foucaultiano binomio di “sorvegliare e punire” per riassumere in due parole la genealogia e le parentele di cui parlo. Proprio per questo, in effetti, già da molti anni la scuola che conosciamo mostra irresistibili segni di obsolescenza; ed è probabile che nuovi modelli di formazione, di cui si intravedono già gli embrioni, prenderanno corpo in un futuro non lontano, nel quale anche la centralità dell’edificio-reclusorio (parallelo alla caserma e al carcere) sarà inevitabilmente superata, almeno in parte. E tuttavia, nell’hardware organizzativo della scuola “tradizionale”, gli spazi di manovra per una scuola “diversa”, risultano tutt’altro che esigui, se perfino in carcere non lo sono.

Su questo punto vorrei essere chiaro: infatti non intendo minimamente associarmi alla retorica esteriore della scuola creativa che per essere innescata dovrebbe prima rivoluzionare alle radici le basi organizzative della scuola attuale. Finché ogni mattina, per duecento giorni l’anno, dovremo obbedire alla necessità di far convergere centinaia di alunni e docenti in uno spazio circoscritto, per un determinato tempo, non possiamo che fondare la nostra convivenza su orari, regole, prescrizioni comuni e il più possibile condivise e riconoscibili. Quando entro in classe il primo giorno dell’anno ricordo sempre a me stesso che mi sto sedendo a una tavola apparecchiata: un’intera organizzazione di persone e di forze, dalla segreteria a chi si è occupato degli organici, della formazione delle classi, dell’orario, perfino del registro che mi è arrivato in mano, ha lavorato per consegnarmi quel posto a tavola. Ma quel posto a tavola, quel lotto di terra che ci è stato assegnato, è una materia prima per cui lo stesso sistema di regole assicura a noi insegnanti una sovranità e un’autonomia d’intervento assolutamente riconosciuta e garantita. Qui non ci sono alibi. Sta a noi far fruttare l’orto, se vogliamo farlo, attraverso strategie “creative”, e vi sono tutte le premesse per farlo. Perché si fondano sulla stessa ragione sociale del vecchio hardware: lo “stare insieme”. È questa una risorsa praticamente illimitata per il lavoro creativo.

Nel lavoro creativo si può infatti cooperare secondo una “grammatica della fantasia” sostanzialmente trasversale rispetto ai linguaggi, ai contesti, perfino alle fasce di età. Come i disegni pubblicati da Capaccio, anche gli scritti dei miei alunni possono prendere corpo per contaminazione, in un gioco di scarti imprevedibili in cui i testi si sviluppano secondo logiche “caotiche”, autopoietiche. E più in generale, indipendentemente da specifiche attività “di gruppo”, il solo fatto di stare insieme rappresenta una viva sorgente per le elaborazioni creative individuali. Penso infatti che la chiave di accesso alle risorse creative, grandi o piccole, dei miei ragazzi, capaci talvolta di far uscire dalle loro penne e anche dalle loro bocche sorprendenti creature, non sia altro che questa fiducia nel nostro innato e comune istinto creativo, che trova nel contatto empatico maestro-allievo il suo ideale terreno di coltura. Su questo terreno avviene infatti uno scambio alla pari, sinergico, nel senso che i ragazzi stessi, con la loro debordante spontaneità, mettono in moto e alimentano ogni giorno quelle energie creative che, nella nostra condizione di adulti, riposano in strati più profondi, talvolta rimossi. Io mi limito, in un certo senso, o meglio mi sforzo (non sempre riuscendoci) di stare al loro gioco. Tutta la “mia” didattica è fondata su una logica dell’“attimo fuggente”, disposta a sacrificare qualunque obbedienza al “programma” (che pure non trascuro affatto) a favore di un’ispirazione del momento intesa non come capriccio, ma come sviluppo di circostanze che si creano in co-struzione con gli alunni, quel giorno, in quel momento, su quel tema (“perfino” del programma). Ovviamente non si creano ogni giorno sufflè con gli ingredienti del momento, e bisogna sapersi accontentare di una frittata quando la cottura non riesce bene (e in questo caso il programma è anche un ottimo soccorso!).

Fondamentale diventa, in questa prospettiva, la dimensione dell’attesa, del momento opportuno, del kair?s, come lo chiamavano i greci. Proprio per questo la scuola di cui parliamo ha bisogno di un ingrediente più necessario di tutti gli altri: il tempo. Il tempo dell’errare di cui abbiamo parlato nel nostro precedente intervento. Quel tempo necessario per diventare autòs-didàskaloi, maestri di se stessi. Un tempo “fuori programma” come il kair?s. Anche questo i Greci l’avevano capito: sta scritto nel senso originario della parola greca scholé, ovvero ‘tempo libero’, tempo che si ha per se stessi, tempo sottratto alle occupazioni servili o meramente esecutive: insomma proprio quello che viene a tutti in mente pensando alla scuola!

Sarei lieto di offrire, in una prossima “puntata”, un esempio concreto di ciò che forse non viene in mente, almeno in prima battuta, pensando alla scuola…

Francesco Lizzani

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